La strazzata, nella memoria collettiva, richiama immediatamente la festa, quella più corale del ciclo della vita: le nozze.
Se si scava nella tradizione orale aviglianese, i ricordi della strazzata aviglianese rimandano subito alla gioia del cibo “speciale” per le occasioni speciali. Lo sguardo degli ultimi vecchi (custodi preziosi della nostra storia orale), ancora, si illumina e la memoria rinnova ricordi gioiosi e festosi, di un’età giovane, ormai lontana. La festa di matrimonio come ci ricorda Giovanni Battista Bronzini nel suo Vita tradizionale in Basilicata [1987], oltre ad essere l’avvenimento centrale nella vita della cosiddetta “civiltà contadina” era anche l’occasione d’incontri per nuovi e futuri matrimoni, inizio di un nuovo ciclo di vita.
Sino a 30 anni fa, quando le nozze si svolgevano in due giornate, il sabato per tutti gli invitati, grandi e piccoli, la strazzata era ancora uno degli alimenti più atteso, più gradito e più gustato. Atteso perché la strazzata, veniva preparata esclusivamente per quell’occasione, insieme ai “funucchiett” e ai “m’stazzuol”. Era servita a metà mattinata del sabato, nel primo “giro” de “i cumplimient”, a casa della sposa.
In capienti cesti di vimini, la strazzata era distribuita agli invitati -convenuti a piedi o a dorso di asinodalle numerose masserie e contrade – dai solerti parenti della sposa, dopo essere stata imbottita di provolone podolico e/o di formaggio pecorino e prosciutto. Seguiva la distribuzione di fiaschetti di vino dolce e corposo di Acerenza o di Maschito, affidati solitamente a giovani coppie del parentado, quasi sempre nuovi fidanzatini che in quel modo annunciavano pubblicamente l’inizio di un possibile nuovo matrimonio.
La strazzata rappresentava la colazione fredda, servito dalla famiglia della sposa, con generosità, soprattutto, verso gli invitati dello sposo consacrando la nascita di un nuovo legame di famiglia, nella migliore tradizione del classico convivio. Il rito della distribuzione veniva ripetuto, verso l’ora di pranzo, a casa dello sposo, con ricambiata generosità verso gli invitati della sposa. Le due famiglie, per i rispettivi invitati (tutto il parentado sino ai cugini dei genitori degli sposi, grandi e piccoli, maschie femmine), mettevano in campo ogni risorsa per ben figurare. Anzi vi era
una vera e propria gara a fare meglio dei nuovi parenti.
Era la prima occasione pubblica che le due famiglie avevano per dichiarare, non solo la condivisione
incondizionata di quel matrimonio (provando ognuno a dare il massimo), ma era anche l’occasione per “dimostrare” che la propria famiglia godeva di una maggiore solidità economica dell’altra. E, in ciò, la
strazzata giocava un ruolo fondamentale.
Non solo le dimensioni del panino dovevano essere notevoli (non più di 5 per ogni focaccia) ma le imbottiture dovevano risultare le più abbondanti possibili e, soprattutto la quantità di pepe presente nell’impasto doveva essere tale da sentirne il pizzichio al palato ad ogni morso. Più pepe, tritato a grani grossi, significava sapore più intenso e per gli adulti (in particolar modo per i maschi) significava stimolo forte ad abbondanti bevute di vino fragrante. Quel vino che dal giorno dopo sarebbe stato del tutto assente nel loro magro pranzo di lavoro.
La strazzata con il suo sapore acuto che “strazza”, lacera le pupille
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gustative, le sottopone a un pizzichio acuto e leggero che richiede, per addolcire il palato, un’urgente bevuta di vino, a piena bocca. Vino fresco, fatto scendere a fontanella, direttamente, dalla fiasca di ciliegio. Grande era il connubio tra strazzata e vino prelevato al momento dal secchio dell’acqua ghiacciata del pozzo o da quella della sorgente naturale sgorgante nei pressi dell’abitazione. Acqua che, come diceva Orazio, magistralmente tradotto in aviglianese da Andrea Mancusi, era quasi sempre fundana “spicchialenda cchiù r’ lu cristale” che m’rtaie “fiure nquantate e miere aroce” (O fons / Bandusiae splendidor vitro/ dulci digne mero non sine floribus) Q. H. Flaccus.
Strazzata, lo spiega il suo stesso nome è un alimento particolare che conquista proprio per questo. Il suo gusto non è dolce, né grasso, non è amaro, né salato, o acido, aspro, astringente, secondo la classificazione che il grande Aristotele aveva stilato e definito già nel IV secolo avanti Cristo. Il suo sapore è “acuto ovvero pungente”, come lo aveva definito il filosofo ateniese.
La strazzata, d’altra parte, non è altro che una focaccia ricavata dalla pasta lievitata e cotta al forno. Il suo procedimento di lavorazione e di cottura è del tutto identico alla normale focaccia: farina di grano duro, ripulita di ogni micro residuo di crusca, con la “seta fina” a cui viene aggiunto
pepe tritato grosso in abbondanza. Il tutto impastato con acqua tiepida dalle energiche braccia delle donne, per circa un’ora, sino a quando il gonfiore della pasta in lievitazione non fa assumere all’impasto la caratteristica morbidezza e sofficità di un organismo “vivo”.
Lasciato a riposare, per circa 2 ore, nella “fazzatora” ricoprendolo con panni di lana, viene, poi, tagliato a pezzi di circa un chilogrammo avvolti nuovamente in panni caldi viene rimesso a riposare e a fermentare sino a quando il gonfiore e la morbidezza non sono ritenuti “maturi” per essere infornati.
A forno caldo, appena liberato dai carboni ardenti
e pazientemente ripulito con “lu ramunl”, ogni forma è spalmata per bene sulla pala e infornata.
Il forno viene socchiuso, non in modo ermetico, come per il pane, ma solamente ostruendone con il coperchio l’imbocco.
Dopo circa quindici/venti minuti le forme rotonde di strazzata sono estratte, profumate, in attesa che si raffreddino per poter essere gustate in tutta la fragranza e il pizzicorio del pepe che “pizzica” la lingua, appunto, in modo simile ad un solletico, tra l’amaro e il dolce.
Un alimento, dunque, del tutto originale che nasce, come nella migliore tradizione alimentare mediterranea, dall’innesto di un nuovo ingrediente su un alimento del tutto consolidato dalla tradizione. Come scrive Massimo Montanari nel suo: Il riposo della polpetta e altre storie oltre il cibo [2011], “Il meccanismo è semplice. – scrive – Si prende un cibo di tutti i giorni, lo si arricchisce di ingredienti speciali, se ne modifica il sapore. La magia è fatta: il cibo quotidiano è diventato il cibo della festa”.
Nel caso della strazzata viene in mente il proverbio: “cos’amar’ tienl’ care”, che se segnala un sottofondo di tristezza attribuisce anche al sapore di questo alimento, grande rispetto.
“Il senso è morale – spiega Montanari – vuol dire che le difficoltà ci fanno crescere, così come le medicine amare ci fanno guarire”.
La strazzata, insomma, riproduce l’antica tradizione greca di contaminare il pane di grano con spezie e aromi che arricchendone il sapore non ne modificano le capacità nutritive e soprattutto contribuiscono a mettere in risalto che mangiare è anche gioia di vivere.
Viva la strazzata, dunque!
Franco Sabia
Direttore Biblioteca Nazionale di Potenza
(tratto da PRODOTTI AGROALIMENTARI TRADIZIONALI La “Strazzata” I prodotti tipici della Basilicata)